La Cecenia di Putin. O il prototipo della guerra in Ucraina

Tra bombardamenti indiscriminati e violazioni dei diritti umani, la guerra in Ucraina scatenata dalla Russia di Vladimir Putin presenta caratteristiche simili ai due conflitti in Cecenia. Un passato che ha ancora un riflesso nel presente in termini di repressione e violenza e che ha toccato personalmente anche Alexander Langer e David Sassoli

Bombe su case, ospedali, scuole, teatri. Devastazione, tregue violate e corridoi umanitari promessi e traditi. Civili innocenti uccisi. Le immagini e le testimonianze che arrivano dall’Ucraina restituiscono tutta la tragedia in atto in un Paese aggredito da un esercito di occupazione straniero. Quello che sta facendo la Russia in Ucraina, però, ha un precedente, anche se su scala ridotta: in Cecenia il regime di Vladimir Putin ha già sperimentato le violazioni sistematiche delle regole della guerra, in disprezzo dei diritti umani e delle vite di civili innocenti. Un dramma che, dal 1991 a oggi, ha attraversato anche le vite dei due protagonisti di questo Progetto, Alexander Langer e David Sassoli.

Cecenia 1994
Groznyj, Cecenia (1994)

Indipendenza soffocata nel sangue

“Anzitutto, cos’è la Cecenia?”. In un articolo pubblicato il primo marzo 1995 per la rivista Mosaico di pace Langer spiegava quanto stava accadendo da quasi quattro anni nella Repubblica secessionista. Nel 1991 Džochar Dudaev venne eletto presidente della Republica cecena e – dopo aver annunciato la non-partecipazione alla Federazione russa – indisse elezioni proprie, non riconosciute dal governo centrale di Mosca. “Per ragioni non ancora chiarite, ma probabilmente per interessi del tutto arbitrari e personali”, Dudaev sciolse il Parlamento ceceno nel 1993 e quello fu il vero momento di svolta: “Tanti deputati vanno all’opposizione, si manifestano degli scontri armati nei quali i servizi segreti russi forniscono armi ai gruppi degli oppositori”, spiegava Langer.

Come confermato dalle sue fonti nella Duma (l’Assemblea russa), “il governo centrale non ha fatto alcun serio tentativo di mediazione con le forze cecene”, prima di attaccare la Repubblica separatista in modo “tanto tardivo quanto brutale”. Le truppe federali “stanno distruggendo casa per casa gli insediamenti ceceni”, in una guerra – la prima guerra cecena, dal 1994 al 1996 – che “suscita tanta indignazione quanto incomprensione per l’inaudito e violento dispiegamento di armamenti e vite umane”. A un anno dalla fine dei combattimenti nella capitale Groznyj e nel resto della Repubblica, il bilancio era di 35 mila morti e più di 150 mila rifugiati, che “non può non sembrare disproporzionato rispetto all’obiettivo di reimporre l’autorità statale”. Non solo “un’operazione di genocidio”, ma anche “un tentativo del governo centrale russo di destabilizzare la regione della Ciscaucasia per instaurarvi la propria egemonia“. Tanto in Cecenia quanto nella Repubblica d’Inguscezia, “popolo fratello dei ceceni non solo per lingua e religione, ma anche per una comune storia di oppressioni e deportazioni a opera del regime stalinista”.

Langer rimproverava all’Occidente il fatto che “prevale la considerazione che tutto ciò sia un affare interno alla Federazione Russa, nella speranza che Mosca concluda al più presto questo scomodo e disgustoso spettacolo”. Valeva allora per la Cecenia e in un certo senso vale ora per l’Ucraina: “Bisogna prender atto del fatto che la Federazione Russa è soprattutto un prodotto della decomposizione sovietica, prima di uno spazio istituzionale ben identificabile”. Se il Paese si presenta come caratterizzato da una “particolare esperienza storico-politica”, allo stesso tempo “non ha ancora trovato una nuova propria identità” e “questa instabilità in una parte così vasta e importante del globo è certo fonte di grande ansietà per le diplomazie occidentali.” Il vero problema – mai risolto in 30 anni di esistenza statale – è che “nonostante tutte le sue aperture ai finanziamenti occidentali e il reiterato credo democratico, Mosca non pare aver abbandonato la famigerata dottrina brezneviana della sovranità limitata, dimostrandosi a tutti gli effetti l’erede dell’Unione Sovietica”.

Ciscaucasia


Massacri e violazioni dei diritti umani

Ma è tre anni più tardi che si mette per la prima volta in moto la vera macchina da guerra di Putin. Il 9 agosto del 1999 l’allora semi-sconosciuto tenente colonnello ed ex-direttore del Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa (erede del KGB sovietico) fu nominato primo ministro della Federazione Russa. Il primo atto del neo-premier (dopo nemmeno tre settimane dall’insediamento) fu un’offensiva militare per riottenere il controllo dei territori conquistati dai separatisti ceceni dopo la fine della prima guerra nella regione. A un mese dall’inizio dei bombardamenti, nel settembre del 1999 Putin dichiarò alla stampa che “perseguiteremo dappertutto i terroristi e quando li troveremo li butteremo dritti nella tazza del cesso”. Fu perseguitata anche la popolazione civile, non solo i terroristi jihadisti.

Il 21 ottobre 1999 un missile colpì il mercato nel centro della capitale Groznyj, provocando la morte di 140 persone, tra cui donne e bambini. Solo una settimana più tardi un aereo russo attaccò un convoglio di profughi ceceni diretti verso la Repubblica d’Inguscezia: furono uccisi in 25, tra civili, volontari della Croce Rossa e giornalisti. Nel gennaio del 2000 le rappresaglie russe sfociarono nel massacro di Katyr-Yurt, quando 170 civili furono uccisi durante l’attacco a un convoglio protetto da bandiera bianca. Si stimano tra le 25 e le 50 mila morti di innocenti nei dieci anni complessivi di guerra scatenata da Putin (1999-2009), ma anche crimini di guerra, stupri e saccheggi da parte dell’esercito e dei mercenari assoldati da Mosca: più di 5 mila sparizioni forzate dal 1999 sono state denunciate nella Cecenia occupata.

Cecenia 2000
Groznyj, Cecenia (2000)

Ma Putin ha anche architettato con cura la transizione verso una Cecenia assoggettata a Mosca. E qui rientra la denuncia di Sassoli in qualità di presidente del Parlamento Europeo. Nel 2007 Ramzan Kadyrov è stato nominato governatore, risollevando la Repubblica dalle rovine della guerra grazie ai finanziamenti stanziati dal governo federale e alla brutale soppressione degli ultimi focolai d’insurrezione. Con la sua milizia privata, Kadyrov ha stabilito un regime autoritario in Cecenia: che è esattamente quello che Putin vorrebbe fare in Ucraina. ‘Figlio d’arte’ di Akhmad, che durante la guerra abbandonò il fronte indipendentista per allearsi con le forze federali di Putin, il leader ceceno mette sistematicamente a tacere le voci critiche con sequestri, torture ed esecuzioni sommarie.

Kadyrov dichiara fedeltà assoluta a Putin, definendo i suoi uomini “leale fanteria” dell’autocrate russo e inviando in Ucraina migliaia di volontari ceceni a supporto della guerra d’invasione di Mosca. D’altra parte, per Putin il governatore ceceno rappresenta la pedina imprescindibile per la stabilità in Cecenia, per non ammettere che la soluzione della crisi nel Caucaso – grande successo della sua presidenza – è reale solo sotto costanti minacce e violazioni dei diritti umani. La Cecenia di oggi è teatro di una persecuzione di massa nei confronti delle persone LGBT+, che subiscono torture in prigioni segrete e uccisioni violente: “Non esistono omosessuali in Cecenia e se esistessero ci penserebbero i loro familiari a mandarli a un indirizzo dal quale non si fa ritorno”, ha dichiarato in modo nemmeno troppo sibillino il portavoce di Kadyrov, facendo riferimento al delitto d’onore.

A prendere una posizione forte contro queste violazioni dei diritti umani ed LGBT+ è stato il Parlamento Europeo, con una risoluzione datata 12 febbraio 2019. “Le autorità russe pongano immediatamente fine a qualsiasi persecuzione, si impegnino a rilasciare le persone detenute e a garantire la protezione delle vittime, dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti che riferiscono su questi casi”, si legge nel testo. A distanza di due anni, nel marzo 2021, l’UE ha deciso di imporre sanzioni contro i responsabili di queste (e altre nuove) violazioni contro i diritti umani in Cecenia e in Russia. Come risposta di chiusura totale al dialogo, Mosca ha a sua volta sanzionato il presidente dell’Eurocamera e altre nove autorità pubbliche UE, impendendone l’ingresso sul territorio russo. “A quanto pare, non sono il benvenuto al Cremlino? Lo sospettavo un po’. Nessuna sanzione o intimidazione fermerà il Parlamento Europeo o me dalla difesa dei diritti umani, della libertà e della democrazia“, ha attaccato con forza Sassoli. “Le minacce non ci zittiranno. Come ha scritto Tolstoj, non c’è grandezza dove non c’è verità”, ha aggiunto. Parole che non hanno mai perso di attualità per la Russia di Putin, dalla Cecenia all’Ucraina.