Dal 1869 al 1954 migliaia di ragazze furono assunte come balie, badanti e dame da compagnia dalla nuova élite egiziana. Decisive per l’economia della Slovenia, furono però ostracizzate al loro ritorno
di Simone Benazzo
Le storie sono come le persone. Ne incontriamo migliaia nella vita. La maggior parte scivola via senza lasciare aloni, assorbita dall’imbuto del tempo, scivolata giù per le botole recondite della memoria.
Alcune invece diventano in parte nostre, o almeno così ci pare per un qualche lasso di tempo, prima che svaniscano. Altre si fermano da qualche parte a metà, si incastrano. Non le afferriamo mai davvero, ma restano lì. Ci eludono, ritornano, poi sfuggono ancora.
Come le stelle quando muoiono, a volte lanciano segnali – o, più probabilmente, noi crediamo di captare un qualche loro segnale che indichi che no, non se ne sono andate. Sono ancora lì, a poca distanza da dove le avevamo lasciate. Spesso, sembra che ci osservino.
Un ringraziamento speciale dalla redazione di BarBalcani va a Marco Carlone, che ci ha donato alcune delle sue meravigliose fotografie.
Aleksandrinke, una vita a servizio
La prima volte che ho sentito la parola aleksandrinke ero con M. a una conferenza a Pordenone. Vesna, che poi avrei avuto modo di conoscere direttamente, raccontava alla borghesia pordenonese di queste donne migranti trans-mediterranee, della loro storia che resisteva agli assalti selvaggi del tempo solo grazie al coriaceo museo che lei e amiche avevano fondato in un paesino sperduto nel Goriziano sloveno dal nome ostico: Prvačina. Non mi ricordo cosa provai allora sentendo parlare delle aleksandrinke. Mi ricordo però nitidamente della passione di Vesna, pronipote di una di loro. Per lei questa non era una storia. Era la sua storia, quella di sua madre, quella di sua nonna, e forse anche quella di migliaia di donne senza nome senza volto senza voce, che a un certo punto non ne hanno fatte tante. Hanno pianto un’ultima volta, in silenzio. Dato una carezza ai propri figli. Innaffiato i fiori sul davanzale. E sono partite. Sapendo che non sarebbero stati mesi. Sarebbero stati anni. Anni molto lunghi.
La storia della aleksandrinke ha una data di inizio ben precisa: 17 novembre 1869. Quel giorno viene inaugurato il canale di Suez. Per il commercio mondiale è una rivoluzione. Per la prima volta, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo si incontrano. Anche per l’Egitto è una rivoluzione. Di colpo, il Paese passa da periferia a centro, snodo ineludibile per gli scambi tra Europa e Sud-Est asiatico, India, Cina, Stati Uniti. Un’ondata di prosperità, benessere, progresso investe le città del regno. Un’ondata diseguale, che esclude la gran parte del proletariato arabofono e le masse contadine, esaltando l’aristocrazia locale e la borghesia, perlopiù di origine europea. E le donne dell’alta società egiziana di fine Ottocento non hanno tempo per badare alla prole, ancora meno alla casa. La socialità impone codici esigenti e ritmi serrati, il denaro bisogna pur ostentarlo. Banchetti, ricevimenti, salotti. Queste famiglie altolocate, allora, necessitano di balie, nutrici, dame di compagnia, badanti, inservienti.
La scelta più logica sarebbe assoldare le donne locali. Ma le signorotte francesi, britanniche, italiane trasferitesi oltremare, così come le nobildonne egiziane, non si fidano delle arabe. Mancano di grazia, educazione, buone maniere. Sono troppo umili. Non esistono stime affidabili su quante siano state le ragazze slovene che hanno lasciato le proprie colline per trasferirsi ad Alessandria e al Cairo. Siamo, verosimilmente, nell’ordine delle migliaia. Le slovene erano richiestissime.
All’epoca pressoché tutto il territorio che oggi forma lo Stato sloveno apparteneva all’Impero austro-ungarico, un impero all’avanguardia per quanto riguardava l’educazione dei propri cittadini. A differenza delle vicine friulane, abitanti dell’arretrato Regno d’Italia, le slovene sapevano leggere, scrivere e far di conto. Spesso erano poliglotte dalla nascita. Parlavano sloveno, tedesco, a volte anche italiano. In Egitto ci mettevano poco ad apprendere francese e inglese, a volte anche rudimenti di arabo. A differenze delle svizzere e delle tedesche, poi, erano considerate più materne, più dolci, meno rigide. Più mediterranee.
Da Trieste all’Egitto
È stata una fortuna o una condanna, per queste donne, il fatto di essere viste come la scelta migliore? Hanno mai maledetto l’istruzione ricevuta, gli stereotipi favorevoli, la Cacania? Non lo sapremo mai. Non è rimasto praticamente alcun indizio per ricostruire quello che queste donne hanno provato, pensato o sofferto. Quello che, invece, sappiamo è che ad Alessandria avere in casa una slovena faceva status. Allora queste donne, che già da anni servivano la borghesia triestina, non ne fanno tante. A Trieste ci vanno ancora. Questa volta, però, non salgono a sgobbare alle villette sul Carso affacciate sull’Adriatico. Vanno direttamente al molo. Si imbarcano sul piroscafo. Voltano le spalle a quella che oggi è Piazza dell’Unità. E partono.
I parallelismi storici lasciano sempre un po’ il tempo che trovano, e le ‘aleksandrinke’ non sono mai state migranti come gli altri, bensì migranti d’élite. Però – lo confesso – mi fa sempre strano pensare che 150 anni fa una persona potesse salire con regolare biglietto su una nave, fare una traversata di tre giorni in cuccetta, magari prendere un caffè sul ponte, sbarcare dall’altra parte del Mediterraneo e trovare ad aspettarla i suoi datori di lavoro.
A casa in Slovenia le aleksandrinke ci tornavano solitamente dopo decenni. Ad alcune, se capitava di accompagnare in tour per l’Europa le famiglie presso cui prestavano servizio, veniva data la possibilità di visitare casa per qualche giorno. Il tempo di abbozzare una chiacchiera con figli di cui a stento riconoscevano i lineamenti, di salutare mamma e papà, di osservare i pascoli freddi in cui avevano passato l’infanzia. E di farsi dare delle puttane. Perché sì, a Jože, Petar e ai loro amici bruciava troppo ammettere che gran parte di quello che possedevano, e di quello che si bevevano, lo dovevano alle buste rigonfie di soldi che la propria moglie era riuscita a spedire a casa lavorando sei giorni su sette dall’altra parte del Mediterraneo.
Dall’Egitto al silenzio
Per dare un’idea di quanto sia stato probabilmente decisivo il contributo delle aleksandrinke bastano un paio di coordinate storiche. L’Aleksandrinstvo durò poco meno di 90 anni, dall’apertura del Canale di Suez nel 1869 all’ascesa di Nasser in Egitto tra 1952 e 1954, che coincise con l’espulsione della borghesia europea dal Paese.
Questi decenni non furono esattamente teneri con la Slovenia – e le aree limitrofe – perlomeno a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando gran parte del territorio divenne parte dello Stato italiano. Alle campagne di italianizzazione forzata seguirono la repressione e le rappresaglie dei fascisti. Nel 1943 arrivarono gli occupanti nazisti, che vedevano in qualunque slavo non collaborazionista un Bandit da neutralizzare. Poi i partigiani titini, e quindi le esecuzioni e le purghe dei collaborazionisti e di chi provava a difenderli. Infine, la Jugoslavia socialista, che fino agli anni Settanta non era proprio un avamposto di benessere diffuso, sicurezza e prosperità. Nel secondo dopoguerra la gente rimasta a est di Gorizia pativa la fame, mi hanno raccontato che gli amici ‘italiani’ andavano di notte al confine per lanciare di là quello che potevano: medicinali, cibo, qualche spiccio.
Durante tutti questi decenni bui, con poche eccezioni, a fine mese arrivavano i soldi delle aleksandrinke, che in Egitto erano pagate quattro volte quello che prendevano a Trieste. Ma la società patriarcale, bigotta e maschilista slovena dell’epoca questa onta non la poteva accettare, nemmeno ammettere. I giornali locali, allora, favoleggiavano di una realtà parallela, un mondo dove le ingenue ragazzine slovene erano cadute preda degli ‘arabi’. L’esotico levantino le aveva corrotte, violate, ghermite per sempre. Cosa c’era di fondato in queste illazioni? Molto poco. Alcune ragazze slovene ebbero forse delle relazioni con degli uomini arabi, ma per la maggior parte di loro Alessandria d’Egitto rimase il breve tragitto tra la villa dove lavoravano e l’oratorio gestito dalle suore dove passavano l’unico giorno libero alla settimana. Suore che spesso agivano sia come Buoncostume che come agenzia interinale, trovando il lavoro alle ragazze e assicurandosi che rimanessero pie, integerrime, candide. Slovene.
È probabile, però, che la vita in città qualche scintilla l’abbia fatta scattare. A contatto quotidiano con donne dell’alta borghesia e con il gotha alessandrino, molte di queste ragazze svilupparono una sorta di coscienza proto-femminista, un accenno di emancipazione che si esprimeva soprattutto nei vestiti alla moda, nelle abitudini urbane, nei modi aggraziati che riportavano in patria. Fu proprio questo rifiuto – implicito ma fermo – delle strutture tradizionali della campagna slovena che portò all’ostracizzazione di queste donne, una volta tornate a casa dopo decenni di servizio. A vedere quel cappellino con il pizzo scendere dal carretto che arrivava dal porto la gran parte dei mariti, figli e parenti strabuzzava gli occhi. E quindi le ‘loro’ donne diventavano mogli sospette, madri degeneri, figlie disonorevoli. A casa, quella casa che avevano contribuito a tenere in piedi per decenni, decenni passati ad allattare i figli degli altri, a rassettare i letti degli altri, a cucinare i pranzi degli altri, le aleksandrinke dovevano riabituarsi a una vita senza acqua calda, senza datteri, senza riconoscenza. A una vita in silenzio.
Maggio del 2021, sono ad Alessandria con F.
Sono stato male per 24 ore. Il cocktail yogurt egiziano – notte sudata – condizionatore a palla nel vagone mi ha sconfitto. Esclusa una fugace visita d’ordinanza alla sinagoga, Alessandria per me è stata la camera d’albergo, di cui ho potuto apprezzare soprattutto il bagno.
Il treno per tornare al Cairo parte tra un’ora, la stazione è lontana dal centro.
“Dai, non andiamo, fa niente. Ci tornerò”
“Ma siamo venuti apposta..”
“Lo so, F., ma non voglio che perdiamo il treno”
“Chi se ne frega del treno. Andiamo”
Lo troviamo subito. È come nelle foto. Bussiamo alla porta. Chiediamo se possiamo vederla. Una suora, forse filippina, ci sorride con comprensione. Ma non sa indicarci quello che cerchiamo. Lei, delle ‘aleksandrinke’, non sa nulla.
“Cazzo, F., andiamo. Stiamo per perdere il treno. Siamo a cena dalla tua amica stasera…”
“Aspetta un attimo”
Spunta il custode dell’ex-oratorio.
Certo, si trova di là, in giardino.
Eccola.
Una delle ultime tracce della storia dimenticata delle ‘aleksandrinke’.
Questo articolo fa parte della rubrica BarBalcani – Open bar, la sezione del progetto BarBalcani aperta ai contributi esterni.
Se hai una propostacper scrivere un articolo, un’intervista o un reportage a tema balcanico, puoi inviarla a redazione@barbalcani.eu.
I contributi esterni usciranno ogni ultimo venerdì del mese.