La questione Kosovo-Serbia è finita anche in una canzone del rapper Drake

Il rapper canadese Drake ha inserito un riferimento alle recenti tensioni tra Serbia e Kosovo nel brano ‘Polar Opposites’. Ma quanto è critica la situazione per arrivare a questo livello di interesse?

“Don’t know how they do things in Pristina
I just know the tension is increasing”

“Non so come funzionano le cose a Pristina, so solo che la tensione sta crescendo”. Come è finito un riferimento a Pristina, la capitale del Kosovo, nell’ultimo album del rapper canadese Drake? Anche se si tratta di una sola barra in Polar Opposites, che affronta tutt’altro tema, non può passare inosservato il fatto che una delle figure più influenti della scena musicale contemporanea mondiale abbia scelto proprio il Kosovo per dare una misura dello stato di incertezza e tensione di cui parla nel resto del brano. Non sappiamo se Drake abbia piena consapevolezza di quanto stia accadendo tra Kosovo e Serbia e del perché dell’escalation di violenza che da maggio sta diventando sempre più allarmante. In ogni caso, è arrivato il momento di fare il punto della situazione. Per capire, come sempre, il motivo per cui tutto ciò che accade nella regione balcanica ci riguarda da vicino.


Questa tappa di BarBalcani si imposta su una prolifica collaborazione con la redazione di Eunews. Se sei interessato o interessata ad approfondire uno specifico evento, troverai di frequente il simbolo ⚠️ scorrendo la newsletter. Ti basterà cliccarci sopra per leggere il relativo articolo e avere un quadro ancora più completo di una situazione molto intricata.


Un 2023 di pura follia

Partiamo dalla fine, dagli eventi più recenti che hanno alzato l’allarme internazionale sulla situazione tra Serbia e Kosovo. La data da cerchiare in rosso sul calendario è il 24 settembre, quando si è verificato un attacco terroristico nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, nel nord del Kosovo (⚠️). Dopo la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia, la polizia kosovara è stata attaccata da una trentina di uomini armati. Un poliziotto è morto e due sono rimasti feriti. Il gruppo è poi entrato nel complesso monastico e per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri. Durante l’operazione di sgombero sono rimasti uccisi tre dei terroristi.

Gli sviluppi dei giorni successivi hanno però tratteggiato un quadro molto più grave del previsto, con diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come evidenziato da un video girato da un drone nel giorno dell’attacco, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska, il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente serbo, Aleksandar Vučić (⚠️). Mentre la polizia kosovara ha scoperto un enorme arsenale di armi a disposizione dei terroristi, lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, gettando una lunga ombra sulla capacità del leader serbo di interferire negli affari interni di Pristina in modo più o meno nascosto e violento.

Milan Radoicic
Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska, tra gli attentatori fuori dal monastero serbo-ortodosso di Banjska, Kosovo (24 settembre 2023)

Le relazioni tra Kosovo e Serbia sono però crollate il 30 settembre, quando gli Stati Uniti hanno avvertito di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo con “un allestimento senza precedenti di artiglieria avanzata, carri armati e unità di fanteria meccanizzata” (⚠️). Bruxelles ha intimato a Belgrado di ritirare le truppe, mentre il Regno Unito ha inviato un contingente per rafforzare la Kosovo Force (KFOR), la forza di pace internazionale a guida NATO che conta ora 4.811 soldati internazionali (⚠️). Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, ha denunciato che l’attentato faceva parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo “attraverso un attacco coordinato su 37 posizioni distinte”, a cui sarebbe seguita la creazione di un corridoio verso la Serbia “per consentire il rifornimento di armi e truppe”.

Sembra però più verosimile che la Serbia volesse minacciare un attacco per imporre indirettamente alla KFOR di prendere il controllo dell’ordine pubblico nel nord del Kosovo, di fatto esautorando la polizia kosovara e impedendo a Pristina di esercitare la piena sovranità sul territorio rivendicato dopo la dichiarazione di indipendenza del 2008. Uno scontro con la NATO rappresenterebbe per Vučić un suicidio politico – in vista di elezioni anticipate il 17 dicembre – e per la sua credibilità internazionale. Anche se sostenuta dalla Russia, la Serbia non potrebbe sostenere l’isolamento internazionale, né sul piano militare né su quello economico.


Il 2023 è a tutti gli effetti l’anno più difficile sul piano diplomatico e più violento sul campo. Il primo punto di non ritorno è stato il 26 maggio, quando sono scoppiate violentissime proteste a seguito dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica (⚠️). Gli esponenti più estremisti della componente serbo-kosovara nel nord del Paese hanno ben presto trasformato le proteste in guerriglia, che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale KFOR (⚠️). A scatenare il tutto è stata la decisione del governo Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa. L’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio proprio di Lista Srpska.

Due settimane più tardi, il 14 giugno, è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento (⚠️). Solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei poliziotti. E poi, dopo un’estate di speranze per il ritorno alla normalità, proprio un attacco alla polizia del Kosovo nel nord del Paese ha riportato la tensione a livelli mai visti prima.

Zvecan Kosovo
Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione KFOR a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / AFP)

Da dove arriva la tensione tra Serbia e Kosovo

Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. È così che bisogna tornare a due anni fa. Dopo la vittoria di Kurti alle elezioni di febbraio 2021 (⚠️), a metà settembre è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe’(⚠️). Una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese.

L’assenza di una soluzione definitiva (⚠️) ha infiammato la seconda metà del 2022. Con la fine dell’accordo provvisorio, a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara (⚠️). La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe (⚠️). Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia (⚠️). Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvečan e Leposavić, che hanno reso necessario il ritorno alle urne. In programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile.

Nonostante la soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles (⚠️), il presidente serbo Vučić ha minacciato di boicottare il  vertice UE-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana per questioni interne a Pristina (⚠️). O meglio, per la nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro, al posto del dimissionario Goran Rakić, leader di Lista Srpska. Rašić è il fondatore del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi a novembre (⚠️). Le barricate sono state smantellate solo dopo alcune settimane.

Kosovo Mitrovica
Kosovska Mitrovica, Kosovo (credits: Armend Nimani / AFP)

E l’Unione Europea che fa?

L’Unione Europea fatica. E non potrebbe essere altrimenti nel suo ruolo di mediatrice tra Serbia e Kosovo. “È necessario riflettere sulla politica dell’UE nei confronti di Belgrado e Pristina“, fanno sapere da Bruxelles, dopo la condanna sia all’attentato nel nord del Kosovo sia all’ammassamento di truppe al confine. La questione più urgente riguarda la possibilità di imporre misure temporanee (non sanzioni) contro la Serbia (⚠️), anche se la questione è resa particolarmente spinosa per la dichiarata opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán (⚠️). Si tratterebbe di procedere nello stesso modo di quanto fatto contro l’altra parte dopo le violenze di fine maggio. E questo ci costringe a fare un passo indietro.

A metà giugno è stata convocata a Bruxelles una riunione d’emergenza con Kurti e Vučić per uscire dalla crisi (⚠️). Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation, l’UE ha imposto misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (⚠️). Per eliminare queste misure è stata concordata a luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando a fatica e che dovrebbe portare a nuove elezioni locali (⚠️). L’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado del 14 settembre ha mostrato ancora una volta il nodo irrisolto della questione: l’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo (⚠️). A 10 anni dall’Accordo di Bruxelles è ancora lontana l’implementazione della comunità nel nord del Kosovo a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative (⚠️).


È proprio sul terreno diplomatico che l’UE si sta giocando tutte le proprie carte (e la propria credibilità internazionale), in una mediazione ormai più che decennale (⚠️). Eppure, prima dell’aumento della tensione tra maggio e settembre, la situazione sembrava essersi indirizzata sui binari giusti. Il 27 febbraio l’accordo di Bruxelles ha definito gli impegni che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci (⚠️). Si tratta di una proposta in 11 punti di grande rilevanza per gli impegni impliciti (⚠️): riconoscimento del Kosovo come Stato sovrano e istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese. Il testo non è stato firmato, ma l’ha reso vincolante l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid, in Macedonia del Nord, il 18 marzo (⚠️). Le pesanti conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto da parte di uno o entrambi gli attori erano sembrate un buon deterrente per ripensamenti.

Il primo articolo implementato è stato quello sulla Dichiarazione sulle persone scomparse (⚠️), seguito a ruota dall’annuncio sul Comitato di monitoraggio congiunto per sorvegliare l’attuazione dell’accordo e la presentazione della bozza sull’Associazione delle municipalità (⚠️). A sei mesi di distanza sembra però di essere tornati alla casella iniziale. Col sottofondo di una canzone di Drake, che dice: Non so come funzionano le cose a Pristina, so solo che la tensione sta crescendo.

Pristina Prishtina Kosovo Serbia
Pristina, Kosovo (credits: Armend Nimani / AFP)